Non posso fare a meno, in questo periodo dell’anno, di riflettere sulla giornata della memoria e sul suo significato: il genocidio di circa 17 milioni di uomini e donne, fra il 1933 ed il 1945 non può passare sotto silenzio, né sotto falsa presentazione. La verità è che si trattò di un vero e proprio Olocausto, le cui vittime erano quasi tutte ebree. Ora sembra quasi andare di moda negare la verità, se non addirittura trasformarla in una falsità, come se si potesse reinventare la storia a nostro tornaconto. D’altra parte nei tempi attuali, è umanamente difficile capire come sia potuto succedere e soprattutto, credere che sia accaduto davvero, senza che nessuno al mondo ponesse un veto. Così oggi, ho deciso di raccontare una storia. Ma questa, non è come le altre: si tratta di una cosa personale, che non ho mai raccontato a nessuno, ma ha contribuito a cambiare la mia vita, insegnandomi il valore della verità e quanto male può fare la paura.
Avevo 15 anni quando persi mio padre e rimasi sola con la mia mamma, senza sostentamento alcuno. Dopo circa un mese, con la promessa, poi non mantenuta, di un lavoro stabile, ci eravamo recate in una città del nord, da cui tornavamo senza più speranze, col treno notturno. Il vagone era completamente deserto e buio ed era di quelli suddivisi in scomparti da sei posti l’uno. Scegliemmo il primo e ci sedemmo. Eravamo al colmo della disperazione e sole. Ci guardavamo senza parlare, interrogandoci sul futuro incerto. Io avrei dovuto proseguire gli studi e da due mesi non frequentavo più la scuola; mia madre aveva chiesto la pensione di reversibilità di mio padre, ma a causa di inghippi burocratici di vario tipo, ci voleva del tempo, troppo tempo. Intanto, non avevamo nulla.
Il treno correva, fermandosi spesso. Ogni tanto chiudevamo gli occhi, ma l’inquietudine di cui soffrivamo, non ci lasciava molta scelta. Giungemmo a Genova verso le due del mattino, dove salì un signore dall’aspetto imponente: era alto e con spalle larghe. Aveva un cappotto grigio, pesante, il volto sembrava segnato da rughe profonde, ma l’oscurità ci impediva di notare altri particolari. Non vedendo altri compagni di viaggio, scelse proprio il nostro scomparto. Forse aveva voglia di compagnia… ma a quell’ora della notte, di quale compagnia aveva bisogno? La paura ci avvolse: io ero adolescente, mia madre poco più che quarantenne, era molto bella, col suo fisico asciutto, gli occhi chiari e e i capelli biondi. Non avevamo per niente voglia di parlare ma quell’uomo volle lo stesso sapere cosa ci facevamo in treno a quell’ora. Fu mia madre a spiegare, breve e sintetica; dalla sua voce traspariva l’angoscia del momento. Furono solo poche parole, per informarlo che aveva perso da poco suo marito, era senza lavoro con una figlia ancora da finire di crescere, io, appunto. Appena terminata la spiegazione, trasalì, rendendosi conto che forse, la strategia giusta, sarebbe stata quella nascondere la verità. Il tizio però, non se ne accorse o fece finta di nulla e volle raccontarci anche la sua storia: non lo incoraggiamo, perché sole, in un momento così duro della vita si era insinuata nelle nostre teste, l’idea che forse voleva approfittarsi di noi. Questo pensavamo entrambe, quando, mentre parlava, iniziò a spogliarsi: tolse il cappotto e, sollevando con una certa fatica il golf e poi la manica della camicia, ci mostrò un numero tatuato sul braccio. Ci disse che glielo avevano fatto quando era poco più di un bambino, poi parlò di un campo lontano, in Austria, dove aveva perso la sua famiglia in tempo di guerra; anche lui era rimasto solo al mondo. Aveva sofferto le pene dell’inferno, vedendo cose atroci, compagni morti, e torturati; fumi di terribili camini che salivano oscurando tutto il giorno il cielo. Noi non comprendevamo bene il significato delle sue parole. Rimanemmo sulle nostre, evitando commenti troppo impegnativi. L’uomo, però, visibilmente emozionato, le gote rosse e il volto trasformato in una maschera, continuava il racconto. Ad un tratto, mentre parlava, mise la mano in tasca. Mia madre ed io cercammo una via di fuga, ma non ce n’erano, perché lui era proprio davanti alla porta dello scomparto, in piedi, e con la sua stazza, occupava l’intero ingresso. Dopo attimi di panico, la mano estrasse però, non un’arma per farci del male, bensì un semplice fazzoletto bianco, ben ripiegato che si portò agli occhi. Poi uscì dallo scompartimento. Mia madre ed io ci guardammo impaurite: chi era quell’uomo? Perché ci diceva tutto ciò? Perché ci raccontava una storia tanto assurda? Facevamo fatica a collocare gli eventi della sua storia nel tempo. Ormai eravamo nella metà degli anni ’70 e la guerra non la ricordava più nessuno. Gli dovevamo credere? Adesso avevamo ancora più paura, perché l’uomo non si era allontanato nel corridoio, ma si era fermato e sembrava volesse rientrare. Aprì la porta dello scomparto, con il volto ancora più contratto. Ci mostrò di nuovo il numero tatuato, ci disse che si era inventato tutta la storie e che quello era il telefono della sua fidanzata. Se ne andò. Ci aveva ascoltato fuori dalla scomparto mentre esternavamo le nostre paure? Forse, ma non lo sapevamo. Non l’abbiamo visto mai più. Il ricordo dell’accaduto era sepolto ormai nella memoria della mia vita come un evento fra gli altri, che aveva causato tanta paura, poi per fortuna, finito bene. Almeno per me.
Molti anni dopo, da giovane insegnante, portai, i miei alunni, in un periodo come questo, a visitare la Piccola Gerusalemme di Pitigliano. Conobbi Elena Servi, che guidava la comunità ebraica del luogo. Dopo la visita alla Sinagoga, ci narrò la storia della sua vita, di come aveva dovuto abbandonare la scuola in 5° elementare per le leggi razziali e di come, durante il tempo della deportazione, lei e la sua famiglia avevano vagato per le campagne intorno a Pitigliano, facendo di un solaio prima e di una caverna poi, la propria dimora. Si erano salvati anche grazie all’aiuto di tanti amici che li avevano nascosti e avevano loro portato da mangiare fino a che i partigiani non li avevano salvati. Era stata fortunata, non come tante altre famiglie che invece, erano state deportate: una di queste, particolare, era stata sterminata, si era salvato solo il figlio piccolo, che poi era riuscito a tornare a casa. Raccontò la sua storia: era stato imprigionato con la famiglia, torturato in un campo di concentramento in Austria, aveva perso tutti suoi parenti ma si era salvato. Era tornato a casa dopo la guerra, a Pitigliano; poi aveva lavorando in giro per l’Italia, ma non era mai riuscito a rifarsi una famiglia, perché aveva sempre il timore che gliela portassero via. Elena lo aveva spesso incoraggiato a liberarsi dei ricordi, a parlare di quel periodo così terribile di quando era in campo di concentramento. Ma lui non ce la faceva. Non aveva mai avuto il coraggio di raccontare davvero tutta la sua storia, tranne una volta, durante un viaggio in treno, in ritorno da Genova, una notte, quando aveva incontrano due donne sole: si trattava di una giovane madre con la figlia adolescente, ma non gli avevano creduto. Aveva solo suscitato tanta incredulità. Così si era sentito in dovere di inventare la bugia del numero della fidanzata tatuato sul braccio, per tranquillizzarle, e disse che la sua storia non era mai accaduta. Dentro di sé era rimasto profondamente offeso: nessuno poteva capirlo davvero, quindi perché parlarne agli altri?
Quelle due donne eravamo mia madre ed io: tempo e luogo combaciavano alla perfezione, non potevo avere dubbi.
Ero sbalordita e fui presa da un tremendo senso di angoscia. Poi subentrò il senso di colpa: ero lì per insegnare ai miei studenti e quando la vita mi aveva portato davanti alla verità, perché la toccassi con mano, ci ero passata sopra come se nulla fosse. Anzi: avevo avuto paura della verità.
Finita la visita, affidai gli alunni al mio collega e presi in disparte Elena: le dissi che c’ero io su quel treno, di ritorno da Genova, con mia madre. Volevo sapere se era ancora in contatto con quell’uomo perché volevo vederlo e chiedergli scusa, dirgli che ero pentita di non avergli creduto. Ma Elena mi disse che l’uomo si era suicidato qualche tempo prima, probabilmente non reggendo alla pesantezza dei ricordi. Molti avevano fatto quella fine, come ad esempio, il grande scrittore Primo Levi. Vedendomi sconvolta, cercò di mitigare il suo racconto, ma ormai la verità era venuta a galla. Durante il rientro a casa in autobus, non feci altro che pensarci. Perché non gli avevamo creduto? Eravamo state la causa, col nostro atteggiamento, io e mia mamma, della sua decisione ultima? Probabilmente c’erano stati anche altri eventi successivi a quello che mi riguardava, ma certo, se ne aveva parlato con Elena, l’insofferenza mia e di mia madre, lo aveva colpito parecchio. Quindi in qualche modo mi sentivo colpevole.
Tante volte ho cercato di analizzare l’accaduto di quella notte, ritornandomi in mente particolari che avevo nascosto a me stessa, come le lacrime, il volto sconvolto dell’uomo che a me e mia mamma era sembrato tanto pauroso e che invece era solo espressione del tormento di un’anima tatuata nel profondo e non solo sulla pelle del braccio. Non raccontai nulla a mia madre, perché era ormai molto anziana e non avrebbe capito, anche se ci provai, ma lei non ricordava che un incontro casuale con l’uomo imponente del treno.
Per un certo tempo, ogni volta che pensavo alla vicenda del treno, me la prendevo con me stessa, mi saliva la rabbia per non aver compreso, ma come avrei potuto? A quell’epoca, poi, non si parlava ancora liberamente dell’Olocausto, e comunque, anche se a scuola, avevo studiato bene la storia perché mi piaceva, tutti gli eventi, fino alla seconda guerra mondiale, mi parevano lontanissimi nel tempo, come fossero secoli addietro e non potessero intaccare, con le loro colpe, gli anni che stavo vivendo io, anni pieni di libertà, di democrazia e di felicità economica.
Alla fine ho concluso che era stata tutta colpa della paura: avevamo paura, paura di conoscere la verità! Non gli avevamo creduto perché la verità fa male, porta alla paura che l’Olocausto possa accadere di nuovo, al timore che noi uomini e donne libere, si possa ancora sbagliare e ricadere nell’inferno del razzismo! Tremiamo all’idea di come siamo, in questo periodo storico, così facilmente influenzabili e malleabili in una direzione o nell’altra, di come ci sembrano giuste idee di una certa classe politica, ma anche dell’altra, senza riuscire a vedere bene dove sia la verità e la bugia.
Ed è questo l’insegnamento che ne ho ricavato: è giusto combattere ogni giorno della vita perché la verità emerga sempre nel pubblico e nel privato. Non avere mai paura di scoprire la verità , non negarla, e non rinunciare soprattutto, a combattere affinché non ci sia mai più, su tutta la terra, anche solo un torturato e un torturatore.