Oggi, mentre tornavo a casa in auto, ho letto di sfuggita in uno di quei manifesti bordati di nero e viola, un nome conosciuto. Si trattava della maestra Bettini. Da molto tempo non la vedevo, direi alcuni anni. Eppure è stata uno dei miei punti focali.
Entrata di ruolo, avevo iniziato l’insegnamento in una pluriclasse, senza aver mai fatto giorni di supplenza e fui poi, scaraventata qua e là, senza un sede definitiva; al mio terzo anno di insegnamento, persi la sede agognata a settembre e fui dirottata presso la Direzione Didattica di Castel del Piano a fare le supplenze. Mal vista dalle colleghe che ancora non erano di ruolo, alle quali pareva che avessi rubato il lavoro (qualcun altro aveva rubato il mio, ed io lo seppi solo a Natale), ruotai per diverse settimane su varie scuola, potendo così farmi un’idea di tante situazioni e conquistandomi in poco tempo, quell’esperienza che mi era mancata in precedenza. A fine ottobre mi misero a sostituire un’insegnante malata: era lei, la maestra Bettini. La classe 4° in cui insegnava era splendida: alunni vivaci, la mente sveglia e con grandi capacità, insieme al gruppetto dei bambini in difficoltà, alcuni persino gravi, come ritardi di apprendimento, disgrafia e discalculia, dislessia. Era una classe a tempo normale, con l’orario classico di quei tempi 8,30-12,30. Trent’anni fa.
I mesi scorrevano veloci. Andai a visitare la maestra durante la sua convalescenza e mi istruì bene sulla personalità degli alunni e su ciò che avrei dovuto fare sommariamente. Avevo la testa piena della mia formazione fresca fresca, che stavo ancora concludendo a Siena, presso l’Istituto di Psicologia. Facevo tutte le materie ma Italiano mi piaceva di più, propinavo lezioni sulla comunicazione; realizzavo piccoli gruppi per dare manforte ai più deboli, apprezzavo i temi (bellissimi) che scrivevano, sentendomi forse inadeguata per gli stimoli dati, ma piena di idee in testa: le mappe scritte alla lavagna, le operazione con la riprova e i problemi, la drammatizzazione con il canovaccio, le attività manuali per compensare i sei giorni pieni di lavoro e i compiti a casa (molti e differenziati). Durante quei mesi la maestra Bettini che pure era assente, sembrava lì con me. Riuscivo ad ascoltarla nelle parole dei bambini che aveva formato, nei discorsi che mi facevano, negli esercizi, nei testi scelti…e più passava il tempo e più l’apprezzavo attraverso i suoi scolari. Cercavo di imitarla.
Terminai la supplenza sui generis a dicembre, quando riprese il suo lavoro. Ormai sessantenne e claudicante, aveva chiesto di rimanere per altri due anni a scuola e glielo avevano concesso. Ma a gennaio una disposizione ministeriale revocò la concessione e la misero in pensione forzata a giugno. Dovette salutare i bambini che le piangevano comunque dietro. Se la prese con tutti, non volle il regalo che le avevamo comprato per la fine della sua carriera (una spilla d’oro); non volle venire alla cena di fine anno. Se la prese anche con me, perché ero giovane, quasi che io avessi richiesto che la buttassero fuori, mentre non capiva che le stavo dietro per “rubarle” il mestiere, per sapere come e cosa faceva…avevo un bisogno incredibile di confrontarmi, ma a quell’epoca non c’era la programmazione settimanale, le insegnanti non si parlavano, gelose le une delle altre, quasi che scambiandosi i “misteri” della didattica commettessero un grave reato: il metodo era “privato e peronale”, non poteva essere comunicato a nessuno.
E così sono passati trent’anni: una battaglia quotidiana, spesso contro i mulini a vento dell’ottusità burocratica, dell’ingnoranza di alcuni genitori, con l’arroganza di certi specialisti. A volte con qualche soddisfazione, forse poca roba per i più: un sorriso, uno sguardo di bimbo. Ogni giorno a scuola, me lo sono conquistato. Ogni tanto l’ho pensata, la maestra Bettini. Lei a sessant’anni era davvero molto anziana e con poca salute, sia pure bravissima. A me toccherà lavorare ancora 15 anni almeno. E chissà come e se ci arriverò. Ma lei in pensione non ci voleva andare: si sentiva nel pieno del mestiere, aveva maturato quell’esperienza e quella saggezza che le invidiavo tanto.
Un caro saluto a te, maestra Bettini: non mi ero mai permessa di dire che dovevi andartente in pensione, ma ti stufavi di avermi dietro, pensavi che volessi rubarti la classe e invece avrei voluto mi spiegassi il tuo lavoro per capire come prendere la mia strada… Voglio ricordarti così: il bastone, la palandrana bianca e nera, le calze di lana che ti cadevano sempre, gli occhi neri e lucidi che nascondevano la bella donna che eri stata in gioventù e soprattutto, una grande personalità da insegnante che sapeva esattamente cosa, come e quando farlo. Nonostante i tuoi acciacchi, eri una vera maestra e ancora penso a te con un velo di nostalgia e il rammarico di non averti fatto capire quanto invidiavo la tua grande esperienza. Addio!